#QuiConTe, la rubrica dedicata alle storie degli infermieri di Venezia questa settimana incontra Stefano Dei Rossi.
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Esercito questa professione da tanti anni e le cose non sono sempre state facili.
Quando è capitato ciò che sto per dirvi, avevo di fronte un paziente quasi avvolto e infagottato nel suo stato patologico. Capita spesso con i pazienti Neurologici nel post-acuto: sono fra i più difficili, silenziosi e distanti, quasi persi dentro al loro mondo storpiato, intaccato dalla malattia. A volte neanche rispondono alle provocazioni e agli stimoli esterni, se non a quelli dolorosi, talvolta neanche a quelli. Ma a volte la vita ti stupisce.
Il paziente di cui voglio raccontare era relativamente giovane, maschio, coniugato e con figli, intelligente, dotato di buona cultura. Ogni volta per mesi me lo sono ritrovato di fronte quasi spento, a tratti agitato, scomposto, dalla consapevolezza sicuramente ridotta. Da dentro il guscio protettivo della privacy siamo venuti a saperne di più di lui, l’abbiamo visto quasi in filigrana in tutto quel che era con la sua famiglia, gli amici che a volte c’erano e a volte no, le sue storie pregresse, le attitudini, occupazioni e abitudini, lo stato economico, pregi e difetti.
Dentro a quello stesso scenario e apparato mi è capitata una piccola sorpresa umana oltre che Professionale: “Ti vedo e sento sai”, mi ha detto un giorno quello stesso paziente prendendomi per la manica della divisa che mi incelofanava come un pacco: “anche se parlo poco, e sono prigioniero di me stesso. Il mio corpo non risponde e non si accende più come vorrei, non riesco proprio a dire niente a volte. È come un incubo: uno strano sogno che non finisce mai, da cui non riesco ad uscire, riprende sempre, non posso scegliere diversamente: è così e basta. Ogni tanto però ci sono di più e sai una cosa? Ascolto tutto e capisco tutto quel che fate e dite, anche se non riesco a interagire con voi come vorrei e come ci si aspetterebbe. Certe volte dire una sola parola è una fatica immensa, mi riesce molto dopo, lentamente o non mi riesce proprio mi esce solo un sospiro. Altre volte quando finalmente riesco a parlare voi ve ne siete già andati via, o mi state parlando di tutt’altro, mentre io sono rimasto ancora alla cosa precedente. Quando vedo mia moglie e i miei figli, o qualche vostra faccia bonaria intuisco che è giusto proseguire e vivere, andare avanti lo stesso, altre volte, invece, quando mi sento riprendere e rimproverare per qualche gesto inconsulto che compio rischiando di procurami danni prevale allora il fastidio, il dolore, la voglia di liberarmi di tutto questo e provare a scappare. Non tutti, anzi in pochissimi vi accorgete di quando vi sto ascoltando, perché dal fuori non mi vedete rispondere, sembro non esserci ma dentro ci sono: sono presente e intendo tutto. E anche te, sai, proprio te: ti sento parlare a volte ti guardo e riconosco e basta, e già questo è tanto, altre volte provi a svegliarmi e mi chiami, e non riesco neanche ad aprire gli occhi. Sento la tua voce che mi è familiare ormai è diversa dalle altre, e da quelle che mi risuonano e rimbombano dentro. Riconosco il tono delle tue battute, il tuo modo di salutare, ridere e scherzare. Un’ultima cosa ti voglio dire, perché adesso sono stanco e non ho più voglia di parlare. Ti ascolto sai, anche quando non ti rispondo. Mi piace quando mi parli lo stesso come se ti rispondessi. Mi piace quando mi chiedi come sto, se sto male, anche se non ti rispondo. E come vuoi che stia? Sto male, sto sempre male, sto malissimo perché sono imprigionato qui dentro ma tu la sai già questa cosa eppure mi chiedi lo stesso: come sto. Capisco allora che me lo chiedi perché hai un altro motivo e scopo in mente. Non sono mica stupido sai, ero un professionista valido difficile di carattere, ma ognuno è fatto a modo suo. Ho capito che il tuo chiedere è un pungolo. Mi chiedi se sono disponibile ad andare oltre a tutto ciò che mi sta accadendo ed è accaduto. È quasi una sfida che mi fai ogni giorno. Uno «sberlotto» provocante per indurmi a reagire giorno per giorno, per quel pochino che mi riesce in più. Il tuo dirmi “Come stai, ci sei” mi invita a accendermi, a reagire e riprendermi, ad accettare quel che sono. Mi fai capire che si deve e si può mettere fra parentesi tutto quello che è accaduto fino a ieri e ignorare il tanto che mi sta ancora succedendo. Mi piace questo trattarmi alla pari degli altri pazienti, come se fossimo tutti uguali. So che non è vero, ci sono quelli gravi e quelli no. È come se tu mi dicessi: “Dai ! Facciamo qualcosa di buono, anche oggi che non è più ieri” e mi verrebbe da dirti: “E perché no? Facciamo qualcosa, come se non fosse accaduto niente, come se fosse possibile mettere in piedi per me ancora qualcosa di buono.”
Quanto vale vivere esperienze e ascoltare parole come queste?
Non so, forse 1300-1500 euro al mese? Notte in più o in meno, turno, festivo o straordinario aggiunto, o riposo e ferie? Non c’è banca né ricchezza, in realtà, capace di conteggiare il valore di certe sensazioni e scambi umani che accadono infossati e nascosti dentro alla quotidianità assoluta di un giorno qualsiasi da Infermiere che si porta avanti e indietro in corsia perdendo ormai il conto dei giorni e degli anni. Sono come dei piccoli doni nascosti, dei regali forse.
Il giorno dopo ho rivisto lo stesso paziente: era il “solito”. Non mi ha detto neanche una parola. Mi ha solo guardato a lungo quasi non mi conoscesse e non mi avesse mai visto. Ecco che cosa può anche essere un Infermiere: questa cascata indicibile e continua di sensazioni e vissuto che continua a crescere giorno dopo giorno...