«Un elemento è rimasto costante nel tempo, e questo mi ha permesso di vivere in continuità il mio percorso professionale: le persone con i loro bisogni, in particolare quelle più fragili, hanno sempre guidato le mie scelte».
Mauro Filippi
Direttore Generale Ulss 4 “Veneto Orientale”
Il mio percorso professionale è iniziato così come è avvenuto per i tantissimi ragazzi e ragazze che scelgono la professione infermieristica, accedendo al corso per infermieri professionali (all’epoca questa era la denominazione) con l’idea di intraprendere un lavoro al servizio degli altri, ed in particolare di coloro che si trovano in una situazione di bisogno.
Avevo appena 16 anni quando sono stato ammesso al percorso triennale per infermiere, perché in quel momento era sufficiente accedere con il biennio di scuola superiore, e la presenza in famiglia di due sorelle già infermiere ha fortemente influito in questa scelta che rifarei anche oggi senza esitazioni.
Nel 1982 mi sono quindi diplomato infermiere con il massimo dei voti, il percorso formativo e di tirocinio mi aveva entusiasmato, passavo le giornate a studiare ed approfondire e spesso anticipavo lo studio dei programmi che il docente avrebbe trattato mesi dopo.
E così subito dopo il diploma e assolto l’obbligo del servizio di leva ho iniziato a lavorare nel 1983, dapprima in strutture private, non senza aver ripreso gli studi per conseguire nel contempo la maturità. Avendo infatti nel frattempo coltivato l’idea di occuparmi dell’organizzazione del lavoro e delle cure infermieristiche era per me necessario acquisire la maturità per accedere al percorso universitario. Il rapporto che avevo con i pazienti ed i loro familiari rimane ancora oggi un ricordo bellissimo che conservo di quegli anni, anche se l’impegno era veramente importante, nei turni di notte un unico infermiere gestiva, con altre figure di supporto (infermieri generici e ausiliari) anche 70 pazienti chirurgici. Nel 1986 ho quindi superato la selezione per entrare al corso per Dirigenti dell’Assistenza Infermieristica dell’Università Cattolica di Roma, il corso era a numero chiuso, solo 30 studenti venivano ammessi su oltre 400 aspiranti. A quel tempo non era ancora attiva la laurea magistrale e quindi un infermiere poteva accedere alle funzioni di responsabile dell’assistenza o di docente universitario solo con quel percorso biennale. Erano attive in Italia solo due sedi, Milano e Roma per l’appunto, facoltà questa che organizzava la frequenza al corso in quattro giornate a tempo pieno, consentendomi così nelle altre giornate di rientrare, viaggiando in treno di notte, per continuare a lavorare e così mantenermi gli studi.
Nel 1988 ho iniziato il mio percorso nel pubblico, presso l’Ospedale di Jesolo, come strumentista di Sala Operatoria, e nel frattempo, conseguito nel 1989 il titolo di dirigente, sempre con il massimo dei voti, ho iniziato a guardarmi attorno per poter intraprendere la carriera organizzativa.
Sempre in quegli anni ho avviato una collaborazione con l’Università Cattolica che mi ha offerto un incarico di docenza presso il corso per Dirigenti, incarico che ho mantenuto negli anni anche quando il corso per dirigenti è diventato laurea magistrale in Scienze Infermieristiche ed Ostetriche, analoghi incarichi ho avviato anche con l’Università di Padova sia al corso di laurea magistrale che ai master di coordinamento e per alcuni anni presso la sede di infermieristica di Portogruaro. Sono sempre stato convinto che coniugare attività lavorativa con quella formativa fosse una grande opportunità per gli studenti ma anche per me perché mi dava modo di coniugare conoscenza ed esperienza. Per questo motivo ho deciso in quegli anni di iscrivermi al corso di laurea in Scienze dell’educazione di Trieste, laureandomi con lode nel 2002 ed acquisendo quelle competenze nel campo della formazione degli adulti, fondamentali per poter gestire efficacemente l’attività.
Finalmente con l’attivazione dei corsi di laurea specialistica ho potuto conseguire nel 2005 sempre con lode, la laurea magistrale in scienze infermieristiche ed ostetriche. Nel corso degli anni ho lavorato in diverse aziende sanitarie del veneto, all’inizio come dirigente dei Servizi Infermieristici, nel tempo divenuti Unità Operative delle Professioni sanitarie, e poi come direttore della unità complessa Professioni Sanitarie della ULSS 4 “Veneto Orientale”. Nella stessa azienda ho avuto l’opportunità di essere nominato nell’ambito della direzione strategica, direttore dei Servizi Socio sanitari, nel quinquennio 2016-2021 (sino al 28 febbraio) e dal 1° marzo sono stato nominato dal Presidente Luca Zaia direttore Generale sempre
dell’Azienda Ulss 4.
Esperienza diverse nel tempo, poiché le responsabilità e le funzioni assicurate si sono modificate ogni volta che cambiava il mio ruolo. Solo un elemento e rimasto costante nel tempo, e questo mi ha permesso di vivere in continuità il mio percorso professionale, e questo è dato dalle persone con i loro bisogni, in particolare quelle più fragili, che hanno sempre guidato le mie scelte.
Oggi da direttore generale non ho ancora avuto tempo per tirare le somme di un percorso che mediamente ogni 5 anni è cambiato in modo importante, ma guardo con entusiasmo davanti a me, e vedo il sistema socio sanitario, quello Veneto al quale appartengo, di cui possiamo essere orgogliosi, un sistema in crescita, che sta superando un periodo molto difficile ma che nel contempo sa interrogarsi proprio rispetto ai bisogni che cambiano velocemente, definendo strumenti di programmazione e modelli organizzativi ed assistenziali che più efficacemente possono rispondervi. Soprattutto un sistema che offre opportunità a chiunque voglia mettersi in gioco e voglia dare il suo contributo. Ma soprattutto in questi anni ho maturato la consapevolezza che la vera differenza la possono fare i professionisti di questo sistema, lavorando assieme, integrandosi e completandosi a vicenda, siano essi infermieri o medici, ostetriche, o tecnici, senza però mai perdere di vista la persona e la sua centralità.
Carissime/carissimi,
proprio in queste giornate ferragostane, per non cadere nell’oblio, voglio proporvi la testimonianza di Martina, una giovane collega che lavora in un Pronto Soccorso che mi ha particolarmente colpito e fatto riflettere.
È una storia che io intitolerei “L’insostenibile pesantezza dell’essere Infermieri”, un titolo sicuramente poco attrattivo, soprattutto se pensiamo alla scarsità di “vocazioni” alla professione infermieristica a cui assistiamo. Ai nostri ragazzi però dobbiamo raccontarla giusta, senza continuare a preservarli dalle difficoltà: essere Infermiere oggi significa purtroppo anche mettere a rischio la propria incolumità al punto di sperare in un ritorno a casa indenni dopo ogni turno. Ma la cosa incredibile è che nonostante questo, la maggior parte degli infermieri, come dice anche Martina, reputa il nostro “uno dei lavori più belli che ti da la possibilità di crescere e migliorarti”: questa si chiama Resilienza - aggiungo io.
Questo penso sia il messaggio più onesto ed efficace che possiamo dare ai ragazzi che stanno decidendo in questi giorni la facoltà a cui iscriversi.
Grazie Martina per il tuo coraggio.
Buona lettura a tutti voi.
Marina Bottacin
Presidente OPI Venezia
Una_notte_in_Pronto_Soccorso.pdf
14 Agosto 2023
#QuiConTe, la rubrica dedicata alle storie degli infermieri di Venezia questa settimana incontra Stefano Dei Rossi.
Segnalateci le vostre storie scrivendo a ufficiostampa@opivenezia.it
Esercito questa professione da tanti anni e le cose non sono sempre state facili.
Quando è capitato ciò che sto per dirvi, avevo di fronte un paziente quasi avvolto e infagottato nel suo stato patologico. Capita spesso con i pazienti Neurologici nel post-acuto: sono fra i più difficili, silenziosi e distanti, quasi persi dentro al loro mondo storpiato, intaccato dalla malattia. A volte neanche rispondono alle provocazioni e agli stimoli esterni, se non a quelli dolorosi, talvolta neanche a quelli. Ma a volte la vita ti stupisce.
Il paziente di cui voglio raccontare era relativamente giovane, maschio, coniugato e con figli, intelligente, dotato di buona cultura. Ogni volta per mesi me lo sono ritrovato di fronte quasi spento, a tratti agitato, scomposto, dalla consapevolezza sicuramente ridotta. Da dentro il guscio protettivo della privacy siamo venuti a saperne di più di lui, l’abbiamo visto quasi in filigrana in tutto quel che era con la sua famiglia, gli amici che a volte c’erano e a volte no, le sue storie pregresse, le attitudini, occupazioni e abitudini, lo stato economico, pregi e difetti.
Dentro a quello stesso scenario e apparato mi è capitata una piccola sorpresa umana oltre che Professionale: “Ti vedo e sento sai”, mi ha detto un giorno quello stesso paziente prendendomi per la manica della divisa che mi incelofanava come un pacco: “anche se parlo poco, e sono prigioniero di me stesso. Il mio corpo non risponde e non si accende più come vorrei, non riesco proprio a dire niente a volte. È come un incubo: uno strano sogno che non finisce mai, da cui non riesco ad uscire, riprende sempre, non posso scegliere diversamente: è così e basta. Ogni tanto però ci sono di più e sai una cosa? Ascolto tutto e capisco tutto quel che fate e dite, anche se non riesco a interagire con voi come vorrei e come ci si aspetterebbe. Certe volte dire una sola parola è una fatica immensa, mi riesce molto dopo, lentamente o non mi riesce proprio mi esce solo un sospiro. Altre volte quando finalmente riesco a parlare voi ve ne siete già andati via, o mi state parlando di tutt’altro, mentre io sono rimasto ancora alla cosa precedente. Quando vedo mia moglie e i miei figli, o qualche vostra faccia bonaria intuisco che è giusto proseguire e vivere, andare avanti lo stesso, altre volte, invece, quando mi sento riprendere e rimproverare per qualche gesto inconsulto che compio rischiando di procurami danni prevale allora il fastidio, il dolore, la voglia di liberarmi di tutto questo e provare a scappare. Non tutti, anzi in pochissimi vi accorgete di quando vi sto ascoltando, perché dal fuori non mi vedete rispondere, sembro non esserci ma dentro ci sono: sono presente e intendo tutto. E anche te, sai, proprio te: ti sento parlare a volte ti guardo e riconosco e basta, e già questo è tanto, altre volte provi a svegliarmi e mi chiami, e non riesco neanche ad aprire gli occhi. Sento la tua voce che mi è familiare ormai è diversa dalle altre, e da quelle che mi risuonano e rimbombano dentro. Riconosco il tono delle tue battute, il tuo modo di salutare, ridere e scherzare. Un’ultima cosa ti voglio dire, perché adesso sono stanco e non ho più voglia di parlare. Ti ascolto sai, anche quando non ti rispondo. Mi piace quando mi parli lo stesso come se ti rispondessi. Mi piace quando mi chiedi come sto, se sto male, anche se non ti rispondo. E come vuoi che stia? Sto male, sto sempre male, sto malissimo perché sono imprigionato qui dentro ma tu la sai già questa cosa eppure mi chiedi lo stesso: come sto. Capisco allora che me lo chiedi perché hai un altro motivo e scopo in mente. Non sono mica stupido sai, ero un professionista valido difficile di carattere, ma ognuno è fatto a modo suo. Ho capito che il tuo chiedere è un pungolo. Mi chiedi se sono disponibile ad andare oltre a tutto ciò che mi sta accadendo ed è accaduto. È quasi una sfida che mi fai ogni giorno. Uno «sberlotto» provocante per indurmi a reagire giorno per giorno, per quel pochino che mi riesce in più. Il tuo dirmi “Come stai, ci sei” mi invita a accendermi, a reagire e riprendermi, ad accettare quel che sono. Mi fai capire che si deve e si può mettere fra parentesi tutto quello che è accaduto fino a ieri e ignorare il tanto che mi sta ancora succedendo. Mi piace questo trattarmi alla pari degli altri pazienti, come se fossimo tutti uguali. So che non è vero, ci sono quelli gravi e quelli no. È come se tu mi dicessi: “Dai ! Facciamo qualcosa di buono, anche oggi che non è più ieri” e mi verrebbe da dirti: “E perché no? Facciamo qualcosa, come se non fosse accaduto niente, come se fosse possibile mettere in piedi per me ancora qualcosa di buono.”
Quanto vale vivere esperienze e ascoltare parole come queste?
Non so, forse 1300-1500 euro al mese? Notte in più o in meno, turno, festivo o straordinario aggiunto, o riposo e ferie? Non c’è banca né ricchezza, in realtà, capace di conteggiare il valore di certe sensazioni e scambi umani che accadono infossati e nascosti dentro alla quotidianità assoluta di un giorno qualsiasi da Infermiere che si porta avanti e indietro in corsia perdendo ormai il conto dei giorni e degli anni. Sono come dei piccoli doni nascosti, dei regali forse.
Il giorno dopo ho rivisto lo stesso paziente: era il “solito”. Non mi ha detto neanche una parola. Mi ha solo guardato a lungo quasi non mi conoscesse e non mi avesse mai visto. Ecco che cosa può anche essere un Infermiere: questa cascata indicibile e continua di sensazioni e vissuto che continua a crescere giorno dopo giorno...